Lampedusa, la matrice

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«Un corpo umano genera più bioelettricità di una batteria da 120 volt ed emette oltre 6 milioni di calorie. Sfruttando contemporaneamente queste due fonti le macchine si assicurarono a tempo indefinito tutta l’energia di cui avevano bisogno. Ci sono campi, campi sterminati, dove gli esseri umani non nascono, vengono coltivati. A lungo non ho voluto crederci, poi ho visto quei campi con i miei occhi, ho visto macchine liquefare i morti affinché nutrissero i vivi per via endovenosa. Dinanzi a quello spettacolo, potendo constatare la loro limpida raccapricciante precisione, mi è balzata agli occhi l’evidenza della verità. Che cosa è Matrix? È controllo.»

Con queste parole Morpheus rivela ad un incredulo Neo cosa si cela dietro le apparenze della società in cui vive: un complesso sistema di sfruttamento delle energie umane edificato dalle macchine, padroni che sono arrivati a creare “campi sterminati dove gli esseri umani non nascono, vengono coltivati”, perché ciò che conta sono le loro energie, utili alla produzione, mentre le loro vite non hanno alcun valore. Ora toglietevi dalla testa le immagini visionarie di Matrix e guardatevi intorno: quel barcone avvolto dalle fiamme che vedete affondare al largo di Lampedusa è il lato oscuro della nostra società, la matrice della nostra economia. Quei trecento esseri umani, spariti nel Mediterraneo come se non fossero mai nati, sono i morti che – dice Morpheus – “nutrono” il nostro sistema. Lampedusa è un pezzo fondamentale del nostro mondo, il primo anello della catena del valore, ma per capirlo dobbiamo fare un passo indietro e seguire la linea rossa che parte dalla copertina patinata della nostra società e giunge sui fondali del Mediterraneo, alle radici di quella ricchezza.

Viviamo in una delle nazioni più ricche del pianeta e la nostra economia, ossia il modo con cui viene creata quella ricchezza, è organizzata sulla base del cosiddetto libero mercato: non ci sono schiavi, e siamo tutti liberi di scambiarci merci e lavoro. All’apparenza, un sistema armonioso. Iniziamo a scavare.

Gli imprenditori traggono profitto dalla vendita di merci, e questo profitto può crescere se l’imprenditore riesce produrre quelle merci ad un costo minore. Ogni impresa ha i suoi specifici costi, ma è pur vero che una voce di costo accomuna tutti gli imprenditori, facendoli apparire come una classe omogenea: il costo del lavoro che serve, invariabilmente, alla produzione. La ricerca del massimo profitto spinge quindi l’insieme degli imprenditori ad agire continuamente per comprimere quello che per loro è un mero costo, il salario dei lavoratori. Non è cattiveria, si tratta semplicemente del loro interesse materiale di imprenditori, anzi diremo di più: se un imprenditore, disallineandosi dalla sua classe, rinunciasse ad una parte dei profitti per garantire ai suoi lavoratori salari più dignitosi di quelli vigenti, sarebbe destinato al fallimento dalle stesse regole del libero mercato, perché gli altri imprenditori finirebbero per schiacciare il “buon imprenditore” sotto ai loro maggiori profitti. È il capitalismo, baby!

Il più antico metodo impiegato dagli imprenditori per tenere a bada i salari, dunque per coltivare i propri profitti, è tanto banale quanto efficace: una massa di disoccupati che contende continuamente il posto ai fortunati che lavorano. Nessun lavoratore si sognerà di pretendere una paga più alta se rischia di essere immediatamente sostituito da qualcuno ben felice di sottrarsi alla miseria della disoccupazione. Un vero e proprio esercito di disoccupati, dunque, viene fatto stazionare ai confini del sistema: la loro disperazione è la peggiore minaccia per i lavoratori, dunque la più efficace sentinella dei profitti delle imprese. La disperazione di tanti si presenta così come un ingrediente fondamentale del successo economico di pochi. E più acuta è la disperazione che muove l’esercito dei disoccupati, maggiore sarà la pressione esercitata sui salari, cosicché maggiori saranno i profitti: un circolo vizioso che spinge gli ultimi sempre più in basso, sempre più ai margini. Sempre più a fondo, al largo di Lampedusa.

Chi ci governa lo sa, ha capito che alimentare il terrore degli ultimi, dei più indifesi, accresce i profitti. Così nel 1998, quando governava il centrosinistra, la Legge Turco-Napolitano ha istituito i Centri di Permanenza Temporanea (CPT), veri e propri campi di prigionia in cui vengono stipati gli immigrati privi del permesso di soggiorno, in condizioni deplorevoli in attesa del rimpatrio. Nel solco tracciato dalla Turco-Napolitano si inserisce, nel 2002, la Legge Bossi-Fini varata dal centrodestra, che spinge ancora oltre il processo di criminalizzazione del clandestino e inasprisce la minaccia di espulsione che grava ogni giorno sulla vita di questi individui. Nessuno ha mai seriamente pensato di poter arginare un fenomeno come l’immigrazione di massa, che ha origine nelle condizioni tragiche in cui verte buona parte del pianeta, con un divieto di legge. Il ruolo di queste leggi è un altro: alzare la pressione sugli immigrati, renderli latitanti e dunque più vulnerabili ai ricatti. Con quelle leggi, l’immigrato diventa il più docile dei lavoratori ed il più disperato dei disoccupati mentre, nonostante la propaganda razzista delle destre, è addirittura incoraggiato a rimanere nel nostro paese da frequenti ondate di regolarizzazioni di massa, attente a non indebolire mai le fila dell’esercito di disoccupati, così prezioso per le imprese. Insomma, centrosinistra e centrodestra hanno messo in piedi, negli anni, un meccanismo di disciplina dei lavoratori migranti che appare funzionale alla difesa dei profitti, un sistema che fa leva unicamente sulla disperazione dell’immigrato.

Lampedusa è la matrice di questo sistema. Perché disegna, sui fondali del Mediterraneo, il perimetro di quella disperazione: gli immigrati che arrivano in Italia devono guardare in faccia la morte, e la paura che porteranno dentro di sé costituisce il terreno più fertile per imporre la disciplina che serve al profitto. Ovviamente, nessuno ha materialmente ucciso quegli uomini: quegli uomini sembrano morti per un tragico incidente, quasi fosse un’eredità di quella miseria che si trascinano dietro. La copertina patinata è salva, la nostra società ha un volto buono che piange la loro morte. Eppure nessuno è intervenuto in loro soccorso: addirittura, sono morti nel tentativo di chiedere aiuto, bruciando una coperta per segnalare la loro presenza. Non potevano sapere che la loro presenza era perfettamente nota, ma che nessuno li avrebbe aiutati. Perché morire a Lampedusa non è soltanto un tragico incidente. È al contrario coerente con un disegno, risponde ad una regola precisa che non può, non deve essere infranta.

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