Davvero non si trovano i lavoratori? Il mito alla prova dei numeri

Sin dalla nascita della scrittura, ben 3500 anni fa e forse ancora prima, l’essere umano ha fatto ricorso al mito per darsi una spiegazione della realtà, per tramandare il sistema di valori e i principi di una società. Spesso, i miti servivano ad ammonire gli esseri umani a non compiere atti contro natura. Uno dei motivi ricorrenti del mito greco è la hybris, termine che sta a indicare appunto la tracotanza dell’essere umano, l’arroganza. Hanno peccato di hybris, ad esempio, Icaro, Sisifo o Prometeo. Tutti, a loro modo, arroganti verso gli Dei, ma archetipi della lotta dell’uomo per il raggiungimento della conoscenza.

Purtroppo, i nostri tempi amari e reazionari ci stanno consegnando un nuovo mito i cui personaggi, pur peccando di hybris e tracotanza, sono più interessati alla diffusione della menzogna – anche a costo di apparire ridicoli – che a squarciare i veli dell’ignoranza. Si tratta di un mito ben noto ai nostri lettori dato che ne abbiamo spesso smascherato le falsità e la pretestuosità ma che, tuttavia, è di recente tornato all’onore delle cronache. Si tratta del mito del “lavoro che, in Italia, c’è ma mancano i lavoratori”. Basta fare una piccola ricerca su Google per essere praticamente sommersi da risultati recenti. Negli ultimi mesi, ad esempio, ne hanno parlo Il Resto del Carlino, Panorama, la Stampa, La7 e l’Huffington Post. Quando va bene si tratta di dichiarazioni di imprese o cooperative circa le loro aspettative di assunzioni, spesso tuttavia si tratta di vere e proprie illazioni condite dalle solite infamie: i lavoratori sono sfaticati, schizzinosi e non vogliono fare sacrifici. Come detto, non è la prima volta che ci tocca smascherare certa retorica ma, repetitat iuvant e dunque, ripetiamo.

Il problema in Italia merita di essere osservato da almeno due punti di vista: a) quanti sono i posti vacanti, cioè quelle posizioni per cui le imprese cercano lavoratori senza trovarli; b) come reagiscono i salari di fronte a questa presunta abbondanza di domanda di lavoro (ricordiamolo: le imprese domandano lavoro, mentre i lavoratori lo offrono).

L’entità del problema: i posti vacanti in Italia sono insufficienti

Se si vuole studiare lo stato della domanda di lavoro non soddisfatta, una fonte attendibile di dati è l’ISTAT che ogni trimestre fornisce un resoconto sullo stato del mercato del lavoro in cui analizza anche i dati sui posti vacanti nell’industria e nei servizi. Effettivamente, il tasso di posti vacanti (cioè il rapporto tra posti vacanti e offerta di lavoro) ha subito una crescita sostenuta tra il 2020 e il 2022, dopodiché la crescita si è arrestata. Ciononostante, il numero assoluto di posti vacanti è rimasto stabile anche nel 2023 ad un livello prossimo, ma inferiore, ai 500 mila posti vacanti per trimestre. Una cifra quasi doppia rispetto alla media italiana degli ultimi anni. Poiché i posti vacanti segnalano lo stato della domanda di lavoro, è evidente che essa sembra in uno stato di buona salute rispetto alle secche dell’ultimo decennio. Buona salute che, a dirla tutta, sembra comunque essersi raffreddata negli ultimi trimestri dato che il tasso di posti vacanti ha smesso di crescere da almeno un anno, soprattutto nel comparto industriale. Tuttavia, il mercato del lavoro italiano ha sicuramente goduto del rimbalzo post-pandemia attraversando una fase di crescita occupazionale e riduzione della disoccupazione, anche a fronte di ore lavorate pressoché stagnanti. La crescita dei posti vacanti va letta in relazione a questi dati: se l’occupazione cresce è perché cresce la domanda di lavoro. La crescita dei posti vacanti segnala che le imprese stanno cercando lavoratori più di prima. Trovare lavoratori, tuttavia, può richiedere tempo: da qui, i posti vacanti. Ma, la domanda da porsi è se questi posti siano davvero tanti e se, quindi, la disoccupazione in discesa ma elevata, possa dipendere in parte o in tutto da un mancato incontro tra l’offerta (i lavoratori ‘choosy’, schizzinosi e fannulloni) e la domanda (i posti vacanti) o dipenda, piuttosto, dal fatto che ci sia poco lavoro. Il grafico qui sotto riporta qualche dato.

La colonnina rossa rappresenta il numero assoluto di posti vacanti. Come si può notare, seppur con una tendenza crescente, resta sempre inferiore alle altre due colonne. Che cosa rappresentano? La colonna gialla rappresenta i disoccupati giovani (tra 15 e 29 anni), la colonna blu i disoccupati totali. Come si può notare, quindi, la quantità di posti vacanti (la colonna rossa) non è tale da occupare neanche tutti i disoccupati giovani (la colonna gialla), figuriamoci l’intero ammontare di disoccupati (la colonna blu). Anche in una fase di riduzione della disoccupazione, questa è ancora 5 volte superiore ai posti vacanti. Possiamo quindi proporre una conclusione a questa prima analisi: il numero di posti di lavoro disponibili è più alto rispetto a quello a cui eravamo abituati negli ultimi decenni, ma è ancora largamente insufficiente a sconfiggere la piaga della disoccupazione. Vale a dire, non vi è (nemmeno stavolta…) alcuna ragione per imputare la disoccupazione alla scarsa disponibilità dei lavoratori a lavorare.

Che fare? Formazione e salari

I disoccupati sono, per definizione, lavoratori e lavoratrici che sono disposti a lavorare e cercano attivamente lavoro, ma non lo trovano. La definizione in sé dovrebbe bastare a spazzare il campo dall’accusa di fannulloni. Ad ogni modo, si potrebbe obiettare – e certo lo si fa – che questi disoccupati non abbiano caratteristiche individuali in linea con le richieste del mercato, non siano sufficientemente formati o preparati. Bene, se si va a guardare l’andamento dei posti vacanti, si vedrà che il settore in cui esso è cresciuto di più è proprio il settore alberghiero e della ristorazione. Si tratta dunque di un settore che non richiede un’elevata specializzazione e nel quale, come vedremo, si annidano le peggiori sacche di sfruttamento e bassi salari. E se davvero fossero così alla ricerca di personale, perché non proporre una formazione interna? Vale a dire, perché non dovrebbe essere proprio l’azienda a garantire la formazione del lavoratore per le mansioni che gli chiede di compiere ma deve farsene carico lo Stato, quindi i lavoratori stessi? Il tema dell’istruzione è strettamente legato al tema dei posti vacanti ma, a nostro parere, da un punto di vista contrario a quello della vulgata liberista. La formazione è cruciale per la vita civile di un lavoratore e lo Stato deve farsene carico indipendentemente dalle logiche e dalle richieste del mercato. Ma, proprio a questo riguardo, vi è un altro settore in sofferenza: quello dell’istruzione. Un settore vessato dalle pochissime assunzioni degli ultimi anni, in cui tutto l’onere dell’educazione delle nuove generazioni poggia sulle spalle di insegnanti precari e mal pagati. È notevole, direte, che proprio dopo anni spesi ad imprecare perché i giovani e le giovani studentesse si impegnassero in studi troppo classici invece di imparare un mestiere, proprio il settore dell’istruzione sia in cerca di maestri, professoresse et similia. Ma come, non ci volevate tutti idraulici, fornai e meccanici pronti ad essere spremuti negli ingranaggi della produzione? Non era tutto tempo sprecato quello perso dietro allo studio delle guerre puniche, della letteratura, delle materie umanistiche?

Ma cosa accumuna il settore della ristorazione e il settore dell’istruzione? I bassi salari e il livello di sfruttamento. L’Italia è fanalino di coda nella crescita dei salari reali. È ormai noto che siamo l’unico paese OCSE in cui i salari reali si sono ridotti nell’ultimo trentennio. Vari studi certificano che la povertà lavorativa, vale a dire la povertà che attanaglia chi pure un lavoro ce l’ha, è un fenomeno diffusissimo che riguarda circa il 30% dei lavoratori e delle lavoratrici. Eppure, neanche questa fantomatica e disperata richiesta di lavoratori riesce a dare una spinta decisa ai salari. Se si guarda alle retribuzioni, dalla fine del 2022 sono cresciute in media di circa il 3%, un livello infimo dopo anni di inflazione elevata che ne ha eroso drammaticamente il potere d’acquisto: in termini reali siamo di fronte a una riduzione del salario. Sia nella ristorazione che nell’istruzione, tuttavia, le retribuzioni sono cresciute meno della media. Nell’istruzione si osserva un 2% di crescita, nella ristorazione addirittura uno 0,8%. A fronte di cosa? A fronte di una crescita delle ore lavorate per dipendente superiore a più di 3 volte la media nazionale. Cosa vuol dire? Che nella ristorazione i lavoratori stanno lavorando di più, ma i salari non crescono affatto. Ma se davvero mancano così tanto i lavoratori, perché non li pagate di più, verrebbe da dire.

È evidente, dunque, non solo che la domanda di lavoro da parte delle imprese non sia esplosa e non sia ancora sufficiente, ma anche che l’interesse che si cela dietro ai titoloni dei giornali sia quello di trovare, celermente, lavoratori da spremere e pronti a lavorare per salari da fame e ritmi di lavoro stressanti. Si tratta, niente di più, niente di meno, di un’arma di persuasione con la quale si cerca di scaricare ancora una volta sui lavoratori l’onere della propria condizione di miseria. Ma la realtà non dice questo: i posti di lavoro sono pochi e sono pagati peggio. Insomma, non è il lavoratore italiano che è pigro e svogliato, è il padrone che è avaro e ingordo.

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