Il destino comune delle imprese privatizzate: Ilva e le sue sorelle

ILVA steelworkers protest in GenoaDi recente il presidente del Consiglio Matteo Renzi è intervenuto, a proposito dell’Ilva, ammettendo un possibile intervento di Stato, lasciando trasparire addirittura una possibile nazionalizzazione. Ovviamente, tale dichiarazione sembrerebbe un dietrofront rispetto alle politiche liberiste messe in atto da questo governo. Chi crede fermamente nelle forze regolatrici del mercato, si sente tradito. Un’impresa che è in difficoltà gravi deve essere lasciata al suo destino, ossia al fallimento, perché vuol dire che è inefficiente e quindi deve lasciare spazio e risorse ad imprese migliori. Non a caso il ministro per lo sviluppo economico, Federica Guidi, si è affrettato a smentire una possibile nazionalizzazione dell’Ilva.
L’Ilva ha accumulato un debito verso fornitori di circa 350 milioni ed è coinvolta in un processo giudiziario per danni ambientali che potrebbe costringerla a versare un risarcimento di circa 35 miliardi. Dunque, oggi il valore di mercato risulterebbe decisamente basso e colossi multinazionali stranieri come Arcelor-Mittal e Thyssen Krupp sono in attesa. È impossibile ricorrere alla Cassa Depositi e Prestiti perché, per statuto, questa non può investire in una società in perdita a meno che non sia potenzialmente in crescita e non sembra questo il caso. Senza poi considerare che la Commissione Europea ha inviato una lettera al governo italiano chiedendo chiarimenti su alcuni possibili “aiuti di Stato” che la disciplina comunitaria sulla concorrenza vieta. Il governo dovrà rispondere dell’utilizzo dei fondi sequestrati ai Riva, i proprietari dell’Ilva, trasformati in azioni di Ilva Spa e delle garanzie che ha posto sul prestito bancario (si tratta di circa 250 milioni) di cui ha beneficiato l’azienda. Sembrerebbe dunque che si prenda la strada già seguita nel caso Alitalia, in cui ad essere nazionalizzato fu solamente il debito privato. La good company che produce utili viene messa sul mercato a prezzi stracciati, la bad company, che si fa onere di tutte le perdite, viene messa in conto alle casse dello Stato.
In realtà tutto questo l’Ilva l’ha già vissuto, oramai una ventina di anni fa. L’Ilva apparteneva all’IRI, il grande complesso pubblico che annoverava tantissime realtà industriali in Italia (negli anni ’80 il gruppo era composto da circa 1.000 società con più di 500.000 dipendenti). Nel 1993 l’assemblea straordinaria dell’Ilva Spa deliberò la costituzione per scissione di due società, la Ilva Laminati Piani Srl. – denominata ILP, con impianti a Taranto, Novi Ligure e Genova – e la Acciai Speciali Terni Srl, o più semplicemente AST. I debiti invece, circa 7.000 miliardi di lire, restarono a carico della vecchia ILVA (la bad company) che venne messa in liquidazione alla fine dello stesso 1993. Nel 1995 la famiglia Riva – che in realtà non correva da sola e poteva contare sull’appoggio di Banca Cariplo (poi Banca Intesa) e tre soci di minoranza (la Essar, un gruppo indiano, le Acciaierie Valbruna di Nicola Amenduini e la Metalfar dell’industriale Luigi Fedele Farina) – acquisì l’intero pacchetto azionario dell’ILP, per un ammontare pari a 1.640 miliardi di lire. L’operazione si rivelò un affare d’oro, ed in poco tempo dall’acquisizione i Riva riuscirono a produrre quasi 100 miliardi di lire di utili al mese, ripagando l’investimento in poco meno di un anno e mezzo.
Oggi l’Ilva privatizzata è tornata a vivere un momento molto difficile, eppure pochissime voci si sono sollevate contro la cattiva gestione dei Riva evidentemente sulla scorta dell’idea che il settore privato sia più efficiente del settore pubblico a prescindere. Quando è un’impresa pubblica a trovarsi in difficoltà, non vi sono remore nel giudicarla colpevole. Con troppa facilità si dimentica che i conti di un’impresa pubblica, essendo quest’ultima per definizione orientata al fine pubblico e non al profitto, sono appesantiti da voci che poco hanno a che fare con la semplice gestione del processo produttivo. È insensato parlare di efficienza di un’impresa pubblica, guardando esclusivamente ai numeri messi a bilancio. Spesso, storicamente, si definivano “oneri impropri” investimenti talvolta antieconomici, volti magari a creare occupazione e servizi per la collettività. D’altronde alcuni tipi di investimento non possono che essere pubblici perché nessun soggetto privato sarebbe disposto ad affrontarli, in quanto prevedono tempi di rientro lunghi nonché incerti. In realtà imprese come Eni ed Enel erano fonte d’entrata per lo Stato, in quanto producevano utili che poi lo Stato utilizzava per raggiungere obiettivi di pubblico interesse. Eppure, abbiamo assistito alla sciagurata campagna di privatizzazioni degli anni ’90.
Quando invece è un’impresa privata ad andare in difficoltà, allora la causa è da ricercarsi nella crisi del settore e quello siderurgico sembrerebbe il caso più lampante. Non si pensa minimamente che un’impresa privata possa andare in perdita anche perché i suoi proprietari, aggiungendo costi fittizi al bilancio, le sottraggono ricchezza (i Riva sono anche indagati per corruzione). Il problema dunque è la crisi settoriale e non la mala gestione, sempre che la verità non si trovi nel mezzo. La Commissione Europea ha paventato lo spettro della Cina, in quanto maggior produttore mondiale, e la possibilità che il mercato europeo, già colpito da una forte caduta della domanda interna, venisse schiacciato da milioni di tonnellate d’acciaio cinese. La contrazione del mercato ha portato ad un aumento delle esportazioni dei produttori europei verso il resto del mondo parallelamente ad un processo di sostituzione delle importazioni, tanto che si è dimezzato il volume degli acquisti provenienti dal resto del mondo. La caduta della domanda è stata anche la causa di un inasprimento della concorrenza tra produttori, modificando notevolmente la distribuzione delle quote di mercato. Facile a dirsi, in Europa la produzione tedesca è cresciuta notevolmente a scapito di quella spagnola, che è crollata, e di quella francese. Infatti Arcelor-Mittal – che rappresenta il più grande produttore siderurgico in Francia e Spagna, rispettivamente il 70% e il 45% (Arcelor nasce dalla fusione di imprese, inizialmente pubbliche, francesi e spagnole e poi è stata acquisita da Mittal, il colosso indiano) – ha avviato un processo di ridimensionamento nel vecchio continente dallo scoppio della crisi, spostandosi in altre aree del mondo. Mentre Thyssen Krupp, il più grande produttore tedesco, ha rafforzato la propria presenza in Germania.
A fare le spese in tutto questo è anche la frammentata realtà italiana, perché l’Ilva rappresenta appena un terzo della produzione italiana di laminati e le altre imprese hanno capacità notevolmente inferiori. È difficile essere competitivi quando i concorrenti riescono a sfruttare grandi economie di scala, grazie alle maggiori dimensioni di impresa, in modo da poter compensare la flessione dei prezzi e la contrazione dei profitti.
Il siderurgico è un settore strategico, come quello energetico, e in questi giorni lo stesso Renzi più volte si è impegnato a ricordarlo. In quanto strategico è anche particolarmente ambito, nonostante possa sembrare il contrario, tanto è vero che Arcelor-Mittal, così come Thyssen Krupp, ha un interesse mal celato nei confronti dell’Ilva. C’è poi il pericolo che Arcelor-Mittal voglia comprare l’Ilva solamente per demolirla e accaparrarsi altre quote di mercato, come ha già fatto in Francia con lo stabilimento di Florange, chiudendolo nonostante le proteste dei lavoratori.
È proprio davanti a questo scenario che lo Stato dovrebbe imporsi con forza per risolvere un problema complesso e far coesistere il diritto alla salute con quello al lavoro. Il mercato è indifferente ad entrambi i problemi, la sua unica logica è quella del profitto. Quello che servirebbe oggi, a fronte della crisi dell’Ilva, è una nazionalizzazione vera e propria che rilanci la produzione di un settore strategico, l’occupazione risolvendo allo stesso tempo i problemi ambientali. Non certo l’ennesima soluzione Alitalia di pubblicizzazione dei debiti per la promozione di rinnovati interessi privati.

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