Competitività: una vittoria di Pirro?

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Da quando il dibattito sulla crisi dell’Euro si è spostato dai (presunti) eccessivi debiti pubblici ad un persistente squilibrio commerciale tra i paesi membri, i vertici dell’UE hanno sempre più fatto riferimento ad un (presunto) problema di “competitività” dei paesi della periferia europea (Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda e Italia) rispetto all’area continentale, la cui massima espressione di efficienza e produttività sarebbe il modello di crescita tedesco. In breve: mentre il Sud Europa starebbe vendendo sempre meno merci al Nord, dipenderebbe dal Nord per l’acquisto di un numero crescente di beni, trovandosi di fatto in deficit commerciale. La risposta della Troika al (presunto) problema di tali squilibri commerciali – considerati attraverso diversi canali capaci di causare una crisi del debito sovrano – è stata la vecchia ricetta dell’austerità, ovvero politiche simili a quelle imposte ai paesi periferici negli anni passati. Tuttavia, le attuali politiche sono focalizzate sul tema della competitività, intesa come capacità di esportare i propri prodotti e di conquistare quote di mercato anche all’interno dell’Euro-zona. Dati alla mano, questa considerazione dovrebbe già apparire come fallace se si considera che tra i paesi dell’Euro la differenza tra esportazioni ed importazioni è pressoché nulla, quindi è immediato notare come la competitività diventi una sorte di mors tua vita mea: il risultato è che mentre l’area continentale (Germania in primis) è cresciuta economicamente, l’area periferica ha progressivamente perso i pezzi pregiati della propria filiera produttiva.

La questione che appare più controversa riguarda la quantificazione di questa ambigua idea di competitività: è infatti misurata come “costo dal lavoro per unità di prodotto” (CLUP), ovvero come rapporto tra la quota distributiva dei salari e il prodotto totale. In altri termini, secondo le istituzioni europee si è competitivi se si contiene la componente di costo-salario all’interno del prezzo di un bene. In questo contesto, la Troika continua ad affermare che le misure di austerità fiscale possano incentivare l’economia, anche attraverso il miglioramento delle performance commerciali con l’estero, considerando la crescita come dipendente dalla esportazioni. Quello che però succede all’interno di un’unione monetaria (ovvero senza la possibilità di svalutare la propria moneta) è ben altro: se i paesi periferici sono costretti a recuperare competitività esterna, nel contesto europeo non possono far altro che ridurre i salari nominali, sperando che tale riduzione si traduca in una riduzione dei prezzi di pari ammontare al fine di non vedere compromesso il salario reale. Tuttavia, qualora la riduzione dei salari fosse più cospicua della diminuzione dei prezzi, la quota dei profitti crescerebbe vistosamente: in altri termini, le eccessive pressioni degli euro-burocrati sulla competitività si trasferirebbero nella sostanza in una ingente redistribuzione regressiva della ricchezza. Tuttavia, i salari – a differenza dei prezzi di molti altri beni – presentano fisiologicamente una certa rigidità verso il basso, dovuta al fatto che la propria forza-lavoro è l’unica “merce” di cui dispone il lavoratore, “libero” di vendersi sul mercato per reperire i mezzi necessari al proprio sostentamento. A questo punto della storia il meccanismo di cui si è parlato sopra (recuperare competitività attraverso la riduzione dei salari) potrebbe trovarsi davanti ad un cul de sac: i salari reali non possono scendere sotto alle sussistenze, ovvero sotto una soglia considerata accettabile non solo dal punto di vista biologico (sopravvivenza e riproduzione), bensì congrua al contesto storico, sociale e culturale in cui vive il lavoratore. Si potrebbe in questo contesto fare una riflessione sulla composizione dell’attuale salario di sussistenza, e confrontarlo con lo stesso “paniere” di qualche anno fa: a tal proposito, un recente rapporto ISTAT sui consumi delle famiglie italiane, oltre a segnalare un peggioramento dal punto di vista qualitativo (crolla il consumo di carne, mentre crescono gli acquisti nei discount), indica che la spesa è diminuita anche in termini reali (-2,5% nell’ultimo anno). Per superare questa scogliosa resistenza dei salari verso il basso, oltre all’austerità la Troika sta imponendo ai paesi periferici le cosiddette riforme strutturali: il grido “fare le riforme” (espressione che demagogicamente suona anche bene, in quanto spacciata come progresso, avanzamento tecnologico o riduzione degli sprechi), nella sostanza significa eliminare qualsiasi regolamentazione del mercato del lavoro, parcellizzare gli orari e gli incarichi, abolire qualsiasi limite ai licenziamenti (art. 18 docet), ridurre le tutele, innalzare l’età pensionabile. A ben vedere, le politiche di austerità – riducendo la domanda interna per effetto del contenimento della spesa pubblica – non farebbero altro che ridurre il prodotto totale e quindi la disoccupazione: così facendo, la massa di disoccupati spingerebbe ulteriormente i salari reali verso il basso (essendo state eliminate le tutele legali ed istituzionali), deflazionerebbe l’economia, e permetterebbe al Paese di recuperare competitività di prezzo verso i propri antagonisti nella battaglia per il mercato continentale. Oltre a questo, le politiche di austerity inevitabilmente finiscono per alimentare le disuguaglianze: i continui tagli al welfare colpirebbero le fasce più deboli della popolazione, ovvero proprio coloro che hanno perso il loro lavoro. Non a margine, l’austerità blocca anche tutti gli investimenti pubblici che nel lungo termine potrebbero portare ad incrementi di efficienza e produttività delle imprese (infrastrutture, comunicazioni, istruzione), compromettendo la competitività del sistema anche nel lungo periodo.

Verrebbe ora da chiedersi come si è giunti ad una tale situazione di squilibrio commerciale così evidente – e considerata così pericolosa vista l’ingenza delle politiche attuate per risolverla – tra il Nord e il Sud europeo, per giunta all’interno di un’unione monetaria. Verrebbe da rispondere con qualche dato: si potrebbe far notare che prima del 1999 la Germania mostrava un sistematico deficit commerciale verso l’Euro-zona, e che di fatto l’introduzione della moneta unica ha peggiorato gli squilibri commerciali intra-europei. Come i tedeschi siano riusciti in questa impresa (passare dal disavanzo al surplus commerciale) può essere banalmente spiegato facendo riferimento alla stessa ricetta proposta nelle attuali misure di austerità volte al recupero della competitività: i tedeschi hanno per primi deflazionato la propria economia, attraverso una massiccia svalutazione salariale intrapresa nel 2003 con l’introduzione delle riforme Hartz – ripetutamente dichiarato come modello ideale di mercato del lavoro dal PD di Renzi – oltre che delocalizzando le loro produzioni destinate all’export in paesi come Polonia, Russia ed Ucraina che non adottano l’Euro – ovvero, dove si può beneficiare di un tasso di cambio favorevole. Qualche dato: nel 2012 la Germania mostrava la quota più alta (22,2%) di lavoratori “vulnerabili” (ovvero a basso salario e tutele) di tutta l’Europa occidentale, mentre nel periodo pre-crisi (2001-2007) le retribuzioni del settore manifatturiero tedesco sono cresciute ad un tasso medio annuo dell’1,8%, ampiamente sotto alla dinamica italiana (3%), francese (3,5%), spagnola e portoghese (5,3%). Coerentemente a quanto detto sopra, il contenimento salariale avrebbe dovuto causare un’elevata disoccupazione: tuttavia, questo fenomeno non si è verificato in Germania, perché oltre alla politica dei redditi anche la politica fiscale ha giocato un ruolo importante nella costruzione di questo specifico modello di crescita basato sull’export. Durante i primi anni duemila la Germania ha fatto registrare tassi di disoccupazione elevati (prossimi al 10%) e una bassa crescita del reddito, oltre a un crescente rapporto debito/PIL: mentre i paesi del Sud Europa stavano facendo consolidamento fiscale (ovvero avanzi primari), la Germania violava il Trattato di Maastricht. Questa politica fiscale di tipo espansivo ha però sussidiato direttamente le imprese esportatrici, oltre che finanziare le “vittime” delle riforme del mercato del lavoro: senza questo l’intervento statale la disoccupazione sarebbe di fatto cresciuta. Così facendo, la crescita futura basata sul canale estero avrebbe presto permesso il riassorbimento della disoccupazione.

Le attuali politiche di austerità stanno solamente trasferendo l’onere dell’aggiustamento degli squilibri da Nord a Sud, e le politiche fiscali restrittive non serviranno a risolvere i problemi originari della crisi dell’Euro-zona. Anzi, essendo questa una crisi da domanda, i continui tagli alla spesa pubblica stanno solamente alimentando la recessione e la disoccupazione, che sta raggiungendo livelli insostenibili nei paesi della periferia europea, soprattutto quella giovanile. Tuttavia, nella visione dei vertici dell’UE vincere la sfida della competitività vuol dire tornare a crescere attraverso il canale estero, a discapito degli altri paesi membri e della crescente disoccupazione interna. Lo slogan europeo della competitività andrebbe invece letto come il tentativo di comprimere la quota salari nel prodotto totale al fine di rendere le produzioni nazionali meno costose nei mercati esteri, favorendo di fatto una copiosa redistribuzione del reddito verso i profitti.

Una vittoria di Pirro è una battaglia vinta a un prezzo troppo alto per il vincitore, tanto da far sì che la stessa scelta di scendere in battaglia, nonostante l’esito vittorioso, conduce ad una sconfitta di fondo. L’unica differenza è che Pirro, prima di scendere in battaglia, non era consapevole del tipo di vittoria che lo attendeva.

Un pensiero su “Competitività: una vittoria di Pirro?

  1. Bell’articolo! Condivido quasi nella totalità, un ulteriore appunto che farei è che continuando con questa ricetta, e andando verso una sempre maggiore diminuzione dei salari reali, continueremo a far diminuire la domanda aggregata. In un paese come l’Italia infatti, se non erro, il consumo da salario ricopre più del 50% della domanda aggregata, se in una fase di recessione oltre ad una stretta fiscale, puntiamo anche ad un mercato del lavoro “flessibile”, non tenendo conto del tasso di disoccupazione (che non è una inefficienza temporanea del mercato ma un dato di fatto con il quale o fare i conti) spiegatemi voi come facciamo a riprenderci. Il discorso sull’austerity è lungo, se ne potrebbe parlare per giorni, purtroppo però (forse in parte) funziona. Non si può negare che il suo scopo di riequilibrare i conti con l’estero torni ( Irlanda docet), poi sul raggiungimento del fine che giustifica i mezzi io sono profondamente in disaccordo ma questo è un altro discorso. Così come disse un illustre economista, datemi una fase di espansione e sarò il principale sostenitore dell’austerity, il problema è quando viene somministrata la medicina.

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